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Il concetto di malattia

 

Renaud d’Anglade

(traduzione italiana di Nautilus)

 

La recente pubblicazione di un testo di Debord del 1971, intitolato “Il Pianeta malato”, avviene in un contesto storico che gli dà tutto il suo peso e si presenta come una sorta di verifica empirica del suo ragionamento. Le riflessioni che questo testo ci offre riguardo all’inquinamento come risultante della «crescita automatica delle forze produttive alienate della società di classe» meritano perciò di essere prese sul serio più che mai, in quanto illuminanti sulle questioni che viviamo oggi: discorso tecnocratico sull’inquinamento come sfida da affrontare; rivelazioni pseudo-ontologiche sull’essenza della tecnica; negazioni interessate delle distruzioni in corso; proclami favorevoli a un ritorno a una carestia programmatica, alla trazione animale e alla produzione artigianale delle merci. L’analisi dialettica di una potenza alienata che si rivela come tale è diventata rara. Ma quello che qui ci interessa maggiormente è il concetto di malattia che questo testo sviluppa sotto una forma concretamente applicata.

Se la malattia si presenta come un disturbo degli equilibri e delle sostanze naturali, corrispondenti a un tentativo di reazione contro un’aggressione patogena, le formazioni tossiche prodotte dalla società dello spettacolo e rilevate da Debord all’epoca devono bastare a superare tutte le possibili soglie di difesa, in quanto non hanno cessato di proliferare alla maniera dei tumori cancerosi  (1): inquinamento chimico, radioattivo, sonoro, invasione di sostanze quasi indistruttibili che non si integrano al ciclo universale della trasformazione della materia; e, come abbiamo potuto apprenderlo dal 1971 a oggi: cambiamento climatico accidentale o volontario, manipolazione del patrimonio genetico del vivente in generale, modificazione della formazione psichica a vantaggio di una perdita della sensibilità allo spazio-tempo valorizzata come fattore economico profittevole, eccetera. Ma se la radice ultima della malattia è da ricercare come sempre altrove che nei sintomi, deve ugualmente essere cercata altrove piuttosto che nei fattori esogeni che produrrebbero questo risultato. La malattia si manifesta infatti come una potenza divenuta estranea a sé stessi, come un’azione il cui scopo e risultato non hanno più nulla in comune, come un’azione che punta alla ricchezza monetaria quantitativa e produce la miseria materiale, quantitativa e qualitativa: come un’azione profondamente alienata. «Una società che non è ancora diventata omogenea e che non è determinata da sé stessa, ma sempre più da una parte di essa che si pone al di sopra di essa, che le è esterna, ha sviluppato un movimento di dominio della natura che non si è dominato lui stesso. […] Nella società dell’economia sovrasviluppata tutto è entrato nella sfera dei beni economici, anche l’acqua delle sorgenti e l’aria delle città, il che significa che tutto è diventato male economico, “il rinnegamento compiuto dell’uomo”, che raggiunge adesso la sua perfetta conclusione materiale.» È la potenza del vivente deturnata dalla sua propria morte. La sua morte ha occupato il motore del suo cuore, e dirige il movimento del vivente. Non si tratta assolutamente di una metafora: la morte esiste e agisce positivamente, non è altro che il valore, che sacrifica il reale sull’altare della sua gloria sempre da rinnovare. La guerra al vivente è portata avanti dalla forma mercantile stessa, come continuiamo a ripeterlo, e perfino i vecchi tecnofobi finiscono per ammettere che non c’è nessun’altra spiegazione  (2). E volendo riprendere la terminologia medica definita da Bounan, si è portati a pensare che il nucleo induttore sia il capitale, che la produzione assume la funzione relazionale e che la riproduzione concreta della società in sé rappresenta la funzione metabolica. È lecita questa trasposizione? In qualsiasi caso, è d’obbligo concludere che è il nucleo induttore stesso ad essere la causa del male.

Debord definisce con una perfetta chiarezza ciò che manca al vivente per resistere al movimento della morte: la distruzione del pianeta rivela che «il nostro ambiente è diventato sociale» e che «la gestione di tutto è diventata un affare direttamente politico, fino all’erba dei campi e alla possibilità di bere, fino alla possibilità di dormire senza prendere troppi sonniferi o di lavarsi senza soffrire di troppe allergie, in un momento simile vediamo altresì che la vecchia politica specializzata deve ammettere di essere completamente finita». La politica, come concertazione cosciente degli umani, è assente da un mondo alienato, ma questi ne produce l’immagine rovesciata nella degradazione del mondo: nel ritratto di quel che il mondo diventa quando l’uomo non ha esistenza politica, e che la natura diventa “politica” al posto suo, cioè pone il problema della politica. La disunione dell’uomo da sé stesso diventa visibile intorno a lui, e la politica esiste  prima come la sua assenza in atto. Ognuno dei disastri in corso è uno specchio che la storia tende agli uomini e in cui contemplano quello che la loro pratica quotidiana della chirurgia estetica nasconde loro: questo ritratto purulento di un Dorian Gray che ha raggiunto proporzioni universali. Vedono non il “loro” hybris che i nuovi preti rinfacciano loro per attirarli nelle loro cappelle ammuffite, ma la loro profonda incapacità a dominare la loro stessa creazione, a cominciare dalla loro vita sociale per finire con l’ambiente che distruggono allo stesso modo. Questa straordinaria potenza che affascina tutti, sia chi l’ammira come chi la teme, è in realtà soltanto la forma compiuta dell’impotenza. E questa impotenza divenuta potente, come anche la povertà divenuta opulenta, queste negazioni travestite da accumulazione illustrano il cattivo infinito di cui l’epoca contemporanea ha perso il concetto di fronte alla generalizzazione della sua realtà.

È proprio di fronte a questa contraddizione “realmente esistente” che il pensiero meccanico rivela la sua incapacità. O aderisce alla forma alienata della potenza, e la giustifica contro tutto, integrandosi in maniera o brutale o sottile al progetto tecnocratico, oppure la rifiuta, e regredisce verso la vocazione della mediocrità limitante che da sempre ha costituito il nucleo di tutte le morali repressive. Questo scontro non è nuovo, non è determinato dall’epoca moderna. È antico invece, quanto la divisione della società in caste, perché i suoi due termini corrispondono rigorosamente all’ideologia espansiva della casta dei guerrieri e dei re, e all’ideologia restrittiva della casta sacerdotale. La loro opposizione ancestrale può probabilmente essere considerata come la più sterile e la più debole di tutte, poiché nessuno dei due punti contiene mai in sé la verità dell’altro.

Per la prima volta nella storia, il pensiero dialettico derivato dalla filosofia tedesca e trasposto da Marx in termini di sviluppo materiale delle forze produttive aveva permesso di liquidare un’opposizione tanto sterile, e di concepire il suo superamento. Se anche negli ambienti “critici”, “marxisti” e simili, la nostra epoca rigetta con tanta forza il concetto di forze produttive riducendolo a un semplice credo produttivista borghese, pura spirale quantitativista incapace di qualità, questo rigetto è il testimone diretto dell’abbandono di ogni dimensione dialettica. Quello che viene rigettato con questo concetto è l’idea stessa di un superamento. Per uno spirito mediocre, la manifestazione alienata della potenza è sufficiente a screditare la potenza, classico procedimento della morale sacerdotale. La soluzione sta allora nel ripiego, nella regressione nel rinsecchimento della vita.

È noto che la medicina contemporanea offre generalmente dei rimedi che sono se non peggiori dei mali da curare, per lo meno altrettanto nocivi. Così avviene per il pensiero critico. Ma sarebbe un errore farsi prendere dalla disperazione. Questa unità profonda tra il male e quanto è tenuto a curarlo definisce precisamente la malattia. È questa l’idea che si ritrova nel testo Il pianeta malato. La malattia consiste in origine nella divisione della società in interessi opposti, poi nelle risposte inadeguate (non dialettiche) che le varie epoche furono in grado di apportare questa divisione (e che non fecero altro che perpetuarla), infine nel divenire autonomo di questa logica che si è instaurata con il dominio esercitato dall’economia capitalista e mercantile. Invece di rimettere in discussione il male, ognuna delle tappe non fa che approfondirlo e solidificarlo. Il dominio economico è tale oramai da tendere a cancellare la divisione in classi (primo fattore cronologico), la ricerca necessaria di una risposta (secondo fattore cronologico) e la sua esistenza stessa in quanto ristrutturazione logica e integrata dell’insieme. L’ideologia americana attualmente dominante (come la si ritrova per esempio nel filosofo conservatore Allan Bloom) si presenta di fatto come riassunto, ovviamente involontario, di questa contraddizione della sua forma concentrata: ricorda incessantemente la ricerca della libertà e della felicità che il sistema americano proclama a far data dalla sua Dichiarazione di indipendenza, e interroga sul degradarsi della personalità americana contemporanea mentre tace nell’insieme di quanto rende per l’appunto categoricamente impossibile la realizzazione e la ricerca stessa di questa libertà e di questa felicità. Contrariamente alle antiche forme di dominio, il capitalismo dichiara infatti di propagare quello che nella realtà vieta, e sta in piedi soltanto per questa menzogna. Questa menzogna, come sappiamo, non ha più nulla di un semplice discorso, di un’ideologia o di una “sovrastruttura”, ma risiede al contrario nel substrato materiale stesso di questa società, la merce. Il populismo americano che ai giorni nostri assume proporzioni molto preoccupanti reclama la libertà dello yankee medio nei confronti delle istanze statali federali, ma accetta senza batter ciglio la tirannia del mercato; in questo, si rivela molto vicino alla miopia e alle impasse del fascismo, che attaccava il capitale finanziario internazionale in nome del capitale industriale nazionale. Entrambi sono fondamentalisti della servitù, che non chiedono di essere liberati dalla servitù ma di subire una servitù legata al loro paese. La malattia raggiunge uno stadio avanzato quando finisce così per prescrivere il suo stesso aggravamento: versa allora nella condizione del drogato, cioè in una dipendenza deliberata nei confronti del male stesso. Il discorso americano corrente utilizza con forza il concetto di dipendenza (tutti sono addicted di qualche cosa, e tutto sembra suscettibile di generare un’addiction): ma nessuno nomina la droga più onnipresente, la più perniciosa e la più fatale, che è l’insieme formato dall’economia, dal lavoro, dalla merce, dal denaro. Una condizione totalmente depressa del pensiero e del ragionamento cerca dei tranquillanti in ciò che per l’appunto l’ha creata. Il degrado delle condizioni naturali è soltanto uno dei terreni, certo particolarmente terrificante, di questa logica perversa, e lo scambio internazionale dei permessi di inquinare esprime con un cinismo raramente raggiunto la prigione del pensiero e dell’azione costituito dalla concezione mercificata del mondo. Il medico è ormai al servizio dell’epidemia, che lo paga.

In quanto concetto, la malattia ricorda pertanto di non essere, come lo notava Michel Bounan, la semplice esistenza di un fattore patogeno esterno: «tutte le osservazioni dagli ultimi decenni lo hanno confermato senza eccezioni: ovunque siano riconosciuti una causa e un meccanismo d’azione, quello che i burattinai chiamano lesione è una reazione contro questa causa»  (3); e di non essere neppure la sconfitta di questo processo di reazione scatenato dal vivente, per mancanza di mezzi o ancora per il fatto di un’accumulazione intollerabile di fattori patogeni esterni; ma si può anche spiegare come reazione male informata, mal concepita, mal diretta del vivente nei confronti del suo stesso male. «Alla fine appartiene al regno umano, il cui sistema nervoso è il più complesso, la straordinaria funzione induttrice di inventare gli strumenti materiali e concettuali per trasformare il mondo, che lo modifica a sua volta. È quello attraverso cui l’universo ha una coscienza di sé e una storia»  (4). Ora il ritorno a sé pubblicizzato dal dominio sulla natura definisce la storia delle società in maniera perfettamente sinonima della dialettica delle forze e dei rapporti di produzione sviluppata da Marx, che è meno invecchiato di quanto non si creda. Occorre anche aggiungere, come faceva Marx, che i rapporti di produzione dominanti resistono all’aumento delle forze di produzione, li piegano cioè alle esigenze del loro mantenimento, e che numerose forme di società sono riuscite in modo durevole, se non definitivamente, a spezzare quello che poteva andare al di là di esse  (5). Anche se «non è l’ambiente circostante a determinare la coscienza, ma l’attività vivente nel suo movimento per dominare questo ambiente»  (6), anche se «ogni vivente, nel suo principio e nella sua organizzazione, è soltanto una reazione al mondo, che ricrea incessantemente. Si trasforma così con l’ambiente modificato e, nella sua attività e nelle sue metamorfosi, costruisce altri strumenti per edificare sé stesso, per costruire nuovi strumenti»  (7), il comportamento del vivente che gli permette di trasformare il suo ambiente tende tuttavia a solidificarsi e a intralciare ogni modificazione di sé oltre i limiti che gli paiono tollerabili: il sistema formato dalle due trasformazioni deve restare un insieme coerente. Da parte sua, benché sia eccessivo assimilarla puramente e semplicemente a un organismo vivente, la società organizza anch’esso la sua informazione, quindi l’esistenza e l’orientamento delle reazioni contro i mali che incontra. Ma contrariamente al vivente in generale; questa società presenta la peculiarità di essere scissa, di contenere interessi opposti, e di vivere a partire da questa opposizione; e, allo stesso modo, si tratta meno per lei dei mali che incontra che di quelli che produce essa stessa per il fatto di questo divario. Se nei tempi precedenti l’avvento dell’economia capitalista il divario sociale si esprimeva attraverso una forte separazione dei gruppi sociali e una certa coerenza interna a ognuno di loro e anche fra loro (coerenza specifica che rimpiangono amaramente i conservatori e i fautori della “Tradizione”), il dominio del sistema mercantile concentrato ha sconvolto e annientato l’insieme dei salvagenti sottomettendolo ai suoi imperativi.  Il sistema di produzione del valore e di scambio mercantile ha concentrato in sé tutti gli antichi divari sottraendoli oramai a uno sguardo, se così si può dire, “ingenuamente etnografico”. La malattia non consiste più nell’ineguaglianza e nell’essere-estraneo tra le vecchie sfere separate, ma nell’essere-estraneo universale e unificato che respinge il reale e il vivente ai confini dell’impero del valore. Il burattino disarticolato di cui parlava Bounan, prima di essere l’illusione dei medici, è innanzitutto il prodotto dell’economia mercantile: un puzzle che non è tenuto ad avere vita propria, ma a funzionare come semplice assemblaggio, più o meno vivibile, di pulsioni e facoltà sfruttabili in seno a una megamacchina a rendimento intensivo.

Il riapparire del concetto di malattia, indotto dall’articolo Il pianeta malato, appare in grado di suscitare numerose e fruttuose discussioni. In ogni caso induce questa speranza. Tenteremo di seguito di apportarvi il nostro contributo, sviluppando alcune implicazioni tra quelle che si annunciano, a seconda dei nostri mezzi.

19 novembre 2004


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